Millenni di storia in una ô
Dimentichiamo troppo spesso che nel contesto biblico il primo compito assolto dall’uomo per ordine divino è stato quello di “dare il nome alle cose”, nel presupposto inaudito che siano proprio le parole e i nomi a dare verità e realtà, cioè a creare gli oggetti, gli spazi, gli animali, le città.
Le parole intridono il reale, colonizzano la storia e si allineano nella libreria del tempo come moduli originali e irripetibili di quella struttura sociale e culturale che chiamiamo civiltà, come quella scalvina, che ha, appunto, nella sua denominazione originaria il senso generale della sua identità, del suo destino e del suo sviluppo storico: Al dè Scalf dove scalf definisce contemporaneamente la sua tipologia geologica di fessura, incisa come una stretta ferita corrusca lungo un asse tortuoso e irto, e la sua ricchezza e fonte economica del ferro, estratto per millenni dagli anfratti delle sue miniere. Una parola come anima della realtà, quindi, una verità che si fa suono, lettere, norma, declinazione e, in modo ancora più sorprendente, ritma il pensiero e la vita, così da assegnare ai suoi parlanti una specifica qualità antropologica e caratteristiche uniche, dando prova concreta del legame strutturale tra linguaggio e pensiero.
Per questo solo uno scalvino vero come l’autore di quest’opera poteva far rivivere il sostrato linguistico gallo-italico da cui rimbalzano, come un’eco antica, le parole della lingua parlata, i termini della toponomastica, i nomi dei casati e delle persone, i termini delle usanze e delle tradizioni, i soprannomi. Ciò che nella sua prima opera Scalvì era paziente e laboriosa compilazione e raccolta lessicografica qui si amplia e diventa vera ritrascrizione e fotografia di una civiltà, profonda opera di archeologia culturale, autentica transculturazione, dove le parole, nel loro insieme, traducono un territorio, una cultura, un popolo che rivivono al presente e da rumore di fondo e ombra sonora di un passato storico vogliono reimporsi, nella loro unicità, con la forza di chi non vuole essere sopraffatto dalla impersonale neo-lingua attuale ignara della storia.
Ed è sul filo rosso del ferro scavato e lavorato nelle miniere di questa valle che si scrive l’intera vicenda millenaria del territorio scalvino, dai tempi degli Orumbovii a quelli dei Romani, dall’epoca di Carlo Magno a quella dei monaci di Tour, dal dominio di Venezia a quello napoleonico e poi austriaco e poi italiano. Ed è su questa linea del tempo che si è sviluppato l’asse linguistico di cui quest’opera si fa preziosissima testimonianza, classificando famiglie di parole e radici che conclamano la forza delle relazioni culturali, sociali ed economiche che la valle ha coltivato e vissuto lungo i tanti secoli della sua storia. Ma nessuna complessità relazionale è mai riuscita a scalfire, anzi, per contrasto, ha rafforzato l’unicità del dialetto e del modello antropologico dell’homo scalvino, simbolicamente rappresentato da quella vocale ô che diventa una sorta di marchio: aperta e implosa insieme, sigillo di una singolarità che va salvata ad ogni costo, nota sonora scabra e rotonda che ritma una parlata veloce e rapida che accorcia il tempo della comunicazione a favore di una grande essenzialità ed efficacia; è forse un caso che il dialetto scalvino non conosca il termine più generale e generico di ogni altra lingua, e cioè la parola “cosa”?
Qui tutto è concreto e determinato come il ferro delle miniere, come la roccia delle montagne, come l’umanità profonda e schiva dei loro abitanti. È così che questo volume diventa ol crit di un mondo che aspetta solo di incantarci nella sua perenne vitalità.
Presentazione di Roberto Invernici (direttore editoriale casa editrice ATLAS di Bergamo)
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